Nessuno sa che io sono qui, recensione del film su Netflix
Vi proponiamo la recensione di Nessuno sa che io sono qui, film distribuito via Netflix, diretto da Gaspar Antillo.
L’emotività è certamente una caratteristica ricercata dal grande pubblico odierno nei prodotti cinematografici. Ciò che è interessante è che essa può essere espressa in diverse modalità.
“Nessuno sa che io sono qui”, film di produzione cilena proposto recentemente da Netflix, oltre che presentato online al Tribeca Film Festival di quest’anno, è un dramma che riesce a smuovere le emozioni più profonde in maniera del tutto rara e originale.
Questo risultato è ottenuto grazie ad un insieme di aspetti (dai colori alla recitazione, dalle musiche alle inquadrature) che si incastrano perfettamente tra loro urlando all’unanimità il messaggio di fondo.
Sin dalle prime immagini ciò che salta all’occhio è un paesaggio naturale, rurale, in cui è inserito un personaggio altrettanto semplice e, allo stesso tempo, profondo e interessante. Memo è totalmente integrato nell’ambiente in cui vive e, osservandolo, non si potrebbe immaginare il passato che custodisce. Tuttavia è chiaro da subito che egli sia stato sottoposto ad un qualche tipo di trauma: uomo di poche parole, sempre vestito di stracci informi, quasi a nascondere il proprio corpo, spesso inquadrato di spalle o con il volto coperto dai capelli. Insomma, Jorge Garcia, il celebre Hugo Reyes di “Lost”, riesce in questo film a trasmettere l’immensa solitudine ed il disagio di un uomo che custodisce però ancora molti sogni e, a suo modo, non vi rinuncia.
L’essenzialità di questo lavoro si esplica anche nella scelta di pochi personaggi, sebbene molto intensi e complessi. Tra questi spicca per spontaneità ed innocenza la figura di Marta (Millaray Lobos). Anche Gastòn Pauls e Luis Gnecco meritano però una menzione per l’importante resa dei rispettivi personaggi.
Ad esplicitare il messaggio già molto chiaro è il filo conduttore di tutto il film: la canzone, intonata dal Memo bambino e dal Memo del presente, che segue i rimbalzi temporali della narrazione e lascia rabbia e amarezza nello spettatore, soprattutto nel finale.
In questa pellicola tutto concorre a denunciare il complesso sistema mediatico, che premia i corpi (o meglio, alcuni tipi di corpo) rendendo la sostanza un elemento importante, sì, ma di puro contorno.
Spesso i tempi sono lenti e dilatati: non il massimo per il tipico spettatore odierno. Tuttavia la durata (circa un’ora e mezza) conferisce leggerezza al tutto e permette di cogliere con intensità ogni emozione che l’esordiente Gaspar Antillo ha voluto rappresentare.
Un film consigliatissimo, ben riuscito da ogni punto di vista e di conseguenza apprezzabile da un ampio ventaglio di pubblico.
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