[Recensione] Narcos – Le prime due stagioni della serie che racconta la lotta alla droga in Colombia
Tra gli anni ‘70 e gli anni ’90 il commercio di Cocaina tra la Colombia e gli Stati Uniti aumentò in maniera esponenziale. Non a caso tale periodo storico corrisponde a quello del regno di Pablo Escobar, probabilmente il più noto e ricco narcotrafficante di tutti i tempi, capo del Cartello di Medellín, sua città natale.
La serie originale di Netflix “Narcos” non solo racconta l’ascesa e la caduta di questo controverso personaggio, e non si limita neanche a parlare degli sforzi degli agenti della DEA Murphy e Peña, oltre che del comparto Colombiano, per arrivare alla sua cattura. “Narcos” arriva oltre, riuscendo a narrare in maniera mai banale e sempre al vertice della tensione la storia di un paese martoriato dalla corruzione, dalle guerre e dalla povertà.
Ovviamente non siamo qui a discutere dell’attendibilità e della veridicità dei singoli accadimenti, né a parlare del come viene mostrata la morale dei personaggi in relazione agli avvenimenti reali. Piuttosto parleremo dell’opera in quanto tale, un prodotto narrativo di finzione in cui alcuni fatti sono stati alterati, come esplicato all’inizio di ogni puntata, a fini drammatici.
Utilizzando abilmente un’alternanza di immagini di repertorio e di riprese di fiction, accompagnate dalla narrazione in prima persona del personaggio dell’agente Murphy, ci immergiamo non solo nelle vicende personali dei protagonisti ma anche in quelle del popolo colombiano, vittima di instabilità politica e di guerre per il controllo del potere. La forza di “Narcos” è proprio in questo, nel riuscire a non tralasciare nessun’aspetto immergendoci innanzitutto nel contesto storico culturale e nella psicologia dei personaggi, tutti ben definiti da un’abile scrittura, oltre che ovviamente nelle vicende raccontate.
Tutti i personaggi, sia quelli positivi che quelli negativi, ci vengono mostrati come esseri umani, ricchi di contraddizioni e di paure; caratteristiche che emergono non solo grazie alla già citata abilità degli sceneggiatori, ma anche per merito degli attori, tutti in parte, da quelli principali a quelli secondari. Il brasiliano Wagner Moura, interpretando appunto Escobar, dona corpo e voce ad un personaggio difficile, riuscendo a far emergere sia il lato più cruento che quello più umano, senza mai andare sopra le righe. Non a caso questa interpretazione gli è valsa la Nomination ai Golden Globe 2016 come “Miglior attore in una serie drammatica”.
La visione della serie stimola la riflessione e spinge a ragionare sulle radici del male attraverso il suggerimento, dato sia tramite scelte di regia e montaggio che di sceneggiatura, e non tramite l’esplicazione. Questo punto emerge moltissimo nella seconda stagione, soprattutto negli ultimi episodi ove ci vengono offerti diversi spunti che portano al ragionare sulla tesi che i “mostri”, intensi in senso lato, non esistano perché il lato mostruoso è insito, come anche quello buono, nell’essere umano.
Si potrebbe discutere per ore forse sul valore contenutistico dell’opera che, a nostro avviso, sceglie la giusta strada di non dare risposte, ma di porre le giuste domande lasciando allo spettatore la possibilità di trarre le personali considerazioni; quello che è certo però è che narrativamente il prodotto funziona benissimo, merito di un comparto artistico e tecnico di primo ordine, rivelandosi avvincente ed emozionante dal primo all’ultimo minuto di ogni episodio, e non è cosa da poco.
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