Proseguiamo il nostro viaggio nel cinema horror riprendendo il discorso da dove lo avevamo lasciato ieri (questo l’articolo di riferimento).
Se negli anni Settanta abbiamo visto un cinema horror molto attento alle dinamiche sociali e politiche del periodo come la guerra in Vietnam o alle molteplici dimensioni dell’occulto, gli anni Ottanta si aprono con due film che danno il via a serie cinematografiche con protagonisti due personaggi destinati a entrare nell’immaginario collettivo: Venerdì 13 (1980 regia di Sean S. Cunningham) e Nightmare (1984 regia di Wes Craven) da allora infatti Jason Voohrees e Freddy Krueger si aggiungono all’olimpo delle creature orrorifiche più spaventose di sempre.
Ci sono casi, però, in cui l’horror funge da cornice narrativa dentro la quale vengono mostrate situazioni particolari e per mettere in campo alcune innovazioni tecniche considerevoli. Il caso più sensazionale in questo senso è costituito da Shining (1980) di Stanley Kubrick, regista specializzato nell’affrontare in chiave personale i generi cinematografici e riscriverne i canoni. Il personaggio di Jack Torrance (interpretato da un istrionico Jack Nicholson) è un essere umano che perde, a mano a mano, la propria coscienza dell’essere e smarrendo la cognizione del presente; le riprese ottenute con la steady cam, tra le prime ad essere effettuate, saranno ripetute e copiate da chiunque.
L’horror degli anni Ottanta si contraddistingue da quello del decennio precedente per un’immagine più patinata e per la rinuncia, salvo qualche caso singolo, a parlare per metafora del presente. Ma gli anni Ottanta sono gli anni in cui il cinema postmoderno muove i suoi primi passi, ragion per cui vediamo comparire sul grande schermo alcuni remake di celebri film del passato come La cosa (1982) di John Carpenter. Non solo remake però: il cinema horror del periodo, ma anche il cinema in generale, strizza l’occhio ai b-movie degli anni Cinquanta per realizzare film che parlino allo spettatore edonista del decennio. Ecco quindi che l’horror, oltre che della mente, parla anche del corpo, che non è solo ed esclusivamente il corpo umano (la poetica del body horror di David Cronenberg, soprattutto con La mosca), ma anche del corpo estraneo che si contamina con quello umano come in Alien (1979) di Ridley Scott e nei successivi sequel per arrivare alla creazione di esseri antropomorfi (o xenomorfi) che fanno da contrappunto ai corpi levigati degli anni Ottanta; gli stessi corpi che verranno letteralmente sfatti e cannibalizzati da Brian Yuzna in Society – The horror (1989), vero e proprio punto culminante di una derisione dell’edonismo e del piacere personale tanto in voga nell’America di Reagan.
Gli anni Novanta vedono un prosieguo dei serial cinematografici come Venerdì 13 e Nightmare, pur riscontrando molto raramente il favore di pubblico e critica, mentre si fa sempre più strada la visione orrorifico-apocalittica di John Carpenter che realizza uno dei suoi film migliori con Il seme della follia (1994): qui, vengono affrontate con una lucidità spiazzante le tematiche realtà/finzione e cinema/letteratura, lasciando lo spettatore immerso in una spirale senza via di uscita. Ma il cinema postmoderno non può arrestarsi e, in pieno recupero di un cinema antico ma mai scaduto, il regista Francis Ford Coppola realizza la sua versione di Dracula con Dracula di Bram Stoker (1992), puntando sulla componente erotica.
Poi, l’ironia si fa sempre più presente per cui il cinema horror diventa al contempo omaggio e parodia del cinema horror stesso; il film Scream (1996) di Wes Craven è un continuo gioco citazionistico in cui vengono omaggiati gli horror classici e, al contempo, ne vengono derisi i codici interni. Nel panorama cinematografico dell’orrore, si fa avanti anche il Giappone con alcuni film, denominati j-horror, che faranno scuola anche per il cinema di genere americano. Film come Ring (1998) di Hideo Nakata (di cui verrà realizzato un remake americano diretto da Gore Verbinski) è un esempio perfetto di come l’horror funga da chiave per parlare, e affrontare, le paure contemporanee. Questo ci dice che, a fine millennio, a fare paura è una videocassetta che uccide chi la guarda, così come noi abbiamo paura nel guardare coloro che la guardano.
Nel 1999 arriva un film che, nel bene e nel male, è destinato a fungere da matrice per l’horror a venire. The Blair Witch Project di Daniel Myrick e Eduardo Sanchez gioca sul confine labile tra documentario e finzione e, per merito anche di un marketing virale mai visto prima, il film ottiene un ottimo successo quantomeno in termini di botteghino a fronte di un budget davvero basso. Così, questo film riscrive non solo il modo di realizzare un horror, ma anche il modo di produrlo. E gli anni Duemila terranno conto di questo. Ma il 1999 è anche l’anno di Il sesto senso di M. Night Shyamalan il quale, come anche il cinema horror giapponese, riesce a creare tensione e spavento senza l’ausilio di sangue o effetti visivi ricercati; quello che verrà ricordato di questo film, tanto da essere utilizzato dal regista anche in film successivi, è il colpo di scena che sul finale ribalta completamente il punto di vista.
Con gli anni Duemila, l’horror si fa più splatter con Saw – L’enigmista (2004) di James Wan e Hostel (2005) di Eli Roth in cui l’horror è in mano a omicidi davvero efferati e sanguinolenti con la messa in scena di strumenti di morte sempre più ricercati. Il primo dei due citati, poi, darà vita a una serie di film che ripetono gli stessi schemi, ma trovando ugualmente un certo riscontro presso il pubblico.
Negli ultimi anni, poi, si è fatta sempre più presente la dose di horror girati con la tecnica del found footage. Memori di The Blair Witch Project, questi horror vengono girati con una telecamera a mano e in digitale per dare la sensazione che quello che si sta guardando sia accaduto realmente e che il materiale video sia stato trovato in seguito a una vicenda poco chiara. Alcuni esempi di questo tipo di horror sono Paranormal Activity (2007) di Oren Peli e Rec (2007) di Jaume Balaguerò e Paco Plaza; nel primo caso, una giovane coppia installa in casa una serie di videocamere per riprendere gli eventi inspiegabili che accadono di notte, mentre nel secondo assistiamo alla messa in onda di un programma che riprende il terrore all’interno di un condominio. Il falso documentario e il found footage sfociano poi in altri generi più o meno legati all’horror come Cloverfield (2008) di Matt Reeves.
L’horror del nuovo millennio è consapevole della difficoltà nel percorrere strade nuove e punta sempre di più sul found footage non rendendosi conto che anche questa tecnica sta mostrando la corda. Ecco che allora ci si aggiorna tecnologicamente e mediante i social network si affrontano le paure dettate da intenet, come in Unfriended (2015) di Levan Gabriadze o Friend Request – La morte ha il tuo profilo (2016) di Simon Verhoeven. Perché dopo i sogni, gli alieni e le creature immaginifiche, la paura ha un nuovo volto: lo schermo del computer.
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