Arrival

[Recensione] Arrival, lo sci-fi diretto da Denis Villeneuve

Arrival è lo sci-fi diretto da Denis Villeneuve e interpretato da Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker e Michael Stuhlbarg. Il film, presentato in concorso all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è tratto dal racconto Storia della tua vita scritto da Ted Chiang e incluso nella raccolta Storie della tua vita.

La trama

Dodici astronavi aliene giungono sulla Terra in altrettante zone sparse per il mondo apparentemente senza alcuna logica. Louise Banks è una rinomata linguista e docente all’università e viene chiamata dal colonnello Weber per entrare a far parte di una squadra incaricata di mettersi in contatto con gli alieni nel sito degli Stati Uniti (in Montana) e capire il motivo della loro presenza sul pianeta. Ad affiancarla, c’è anche i fisico teorico Ian Donnelly.

Dopo essere riusciti a instaurare un primo contatto con gli alieni, definiti eptopodi, Louise attua una propria idea di lavoro, ma le pressioni dell’esercito, a causa anche della politica aggressiva del generale cinese Shang che concede agli alieni presenti in Cina un ultimatum per lasciare la zona, pena un attacco al loro guscio, genererà una lotta contro il tempo per capire le reali intenzioni degli alieni, soprattutto in seguito a un loro enigmatico messaggio: “offrire arma”.

Il film

Sceneggiato da Eric Heisserer, il film di Villeneuve si inserisce all’interno della fantascienza con un approccio adulto e non di immediata comprensione. Ciò che sta a cuore al regista, in primis, non sono gli effetti speciali – peraltro pochi, ma ottimamente curati – quanto le reazioni degli umani a un evento straordinario e la nostra capacità di giudizio nell’affrontare ciò che non si conosce. Per questo, il vero fulcro del film è il linguaggio e la sua applicazione effettiva; solo mediante la comunicazione è possibile instaurare un contatto con il “diverso”. Il fascino enigmatico del film sta proprio qui: comprendere una tipologia di scrittura che si differenzia dalla nostra, in quanto quella posseduta dagli eptopodi, di tipo circolare, riesce a esprimere in un solo simbolo un concetto più amplio che rimanda a un intero modo di pensare. Ecco che quindi lo stile di regia adottato da Villeneuve – che si conferma essere uno dei registi più capaci e controllati del panorama cinematografico contemporaneo – si fa rarefatto, ovattato, con piccoli e lenti movimenti di macchina, soprattutto panoramiche, in grado di restituire una visione quanto più globale di questa invasione silenziosa e apparentemente pacifica, il tutto accentuato dalla musica avvolgente di Johann Johansson.

Lo spettatore è inevitabilmente portato a identificarsi col personaggio di Louise (un’eccezionale Amy Adams), linguista che prima di tutto è una donna e l’unica in grado di instaurare un rapporto (linguistico) alla pari con gli alieni, anche a causa del lutto personale. E’ lei a cui viene affidato il compito più importante, ma è anche colei che col linguaggio riesce a impartire più lezioni ai suoi simili rispetto agli alieni perché, come ci insegna la Storia, non bisogna cadere nel fraintendimento durante la comprensione di un linguaggio sconosciuto al fine di evitare disastri inutili (come viene enunciato nel film a proposito degli aborigeni australiani), gli stessi disastri che potrebbero accadere dopo il messaggio lasciato dagli alieni, “offrire arma”, assurto come una minaccia, più per paura che per reale pericolo imminente, senza considerare altre possibilità di interpretazione. La soggettività, dunque, come causa primaria di un (possibile) conflitto; soggettività che non riguarda solo il linguaggio (la teoria di Sapir-Whorf, secondo la quale la lingua può cambiare la propria percezione della realtà, viene esplicitata nel film all’interno di una particolare scena che ne amplifica il significato) ma anche altre sfere della percezione umana come il tempo.

Senza rivelare troppo, appare chiaro che quando verrà svelato il vero intento degli alieni e la possibilità offerta da loro, la mente non può non tornare alla prima salita all’interno dell’astronave, salita che assume tutte le sfumature di un’ascensione, non verso Dio ma verso qualcosa che può dare la conoscenza. Ciò che emerge dal film è anche la difficoltà insita negli essere umani di dialogare tra di essi perché quando la situazione si fa via via più complessa con l’abbandono della strada diplomatica che lascia spazio a quella aggressiva facendo precipitare le cose: tutto ciò a causa della mancata capacità di comunicazione con l’altro, che non è un altro sconosciuto, ma un altro che è come noi.

Sarebbe sbagliato guardare Arrival come un film di fantascienza tout court. I richiami a 2001: Odissea nello spazio ci sono, soprattutto nell’ultima parte, ma sono decodificati in modo non banale e quasi necessario, perché poi il tutto assume contorni tragici quando tutta la vicenda si riversa nel privato di Louise, dando così la giusta chiave interpretativa non solo dell’invasione, ma anche di tutto ciò che si è visto prima con le scene della figlia morente.

Arrival è un film complesso e stratificato che lo stile di Villeneuve non semplifica – a tratti risultando anche un po’ troppo ostico e chiedendo allo spettatore un’attenzione non sempre giustificata dalla narrazione – ma che possiede un indubbio fascino e che invita a una seconda visione per comprendere tutti gli elementi della narrazione.

Voto: 8.5


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