A distanza di tempo, torna sulle nostre pagina Cult Classics, la mitica rubrica dedicata ai film che hanno fatto la storia della cinematografia mondiale.
Il film di oggi è Gioventù, Amore e Rabbia, una pellicola del 1962, diretta da Tony Richardson, ed è un dattamento cinematografico del romanzo di Alan Sillitoe intitolato “La solitudine del maratoneta”. Ecco la nostra recensione.
La Recensione
Anni ‘60. In tutto il mondo si respira aria di rivoluzione culturale, un profumo di rinnovamento radicale che non riguarda unicamente gli aspetti politici. A quelli c’è tempo di arrivare e, la storia lo insegna, bisogna cominciare dalla cultura. Teatro, musica, cinema, letteratura: nessun ambito artistico appare insensibile a questa voglia di cambiamento.
In Francia spopola la Nouvelle Vague; in Italia ci sono strascichi di Neorealismo; in Inghilterra, beh, non esiste una denominazione specifica, ma l’anticonformismo non si fa attendere neanche nella terra di Sua maestà. Importante ausilio è dato da Tony Richardson, uno dei massimi cineasti britannici dell’epoca, che con Gioventù, amore e rabbia consolida il suo ruolo di innovatore nel Secondo Dopoguerra.
Colin Smith (Tom Courtenay) viene pizzicato con dei soldi rubati e finisce in riformatorio. Non che la cosa lo mandi particolarmente fuori giri: Colin, infatti, è un fresco orfano di padre che prova disprezzo verso il patrigno, con cui sua madre non si è fatta scrupoli a rifarsi una vita immediatamente dopo la morte del marito.
Spiccato presto per le sue notevoli doti atletiche, Colin riceve ammirazione dal direttore del riformatorio così come da alcuni suoi compagni, ma quando un novellino scalza con tanta semplicità chi primeggiava quando lui non c’era, i rancori non tardano ad arrivare.
L’unica occasione che i ragazzi hanno di uscire dalla casa di correzione prima possibile è quella di mettersi in mostra nei lavori che gli vengono affidati e nello sport. Costituisce pertanto una grande occasione la gara contro i ‘fighettini’ di un collegio borghese, a cui il direttore tiene particolarmente per non sfigurare con l’ambiente perbene. Colin è la grande speranza del riformatorio ed ha la ghiotta opportunità di una carriera sportiva in caso di vittoria.
Attraverso flashback del protagonista, ci viene raccontata la sua vita di stenti, prima, e di piccoli lussi, poi. L’animo ribelle di un adolescente, però, non può essere spento da una situazione economica improvvisamente agiata, e così Colin preferisce finire dentro per qualche furtarello nel tentativo di “guadagnarsi da vivere” da sé piuttosto che accettare la beneficenza altrui (emblematica la scena in cui brucia i soldi ricevuti da sua madre).
Il finale sfrontato e masochista esprime tutta la rettitudine della rabbia giovane: un cane che si morde la coda. Ma con dignità.
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