Abbiamo visto Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità, film dedicato al noto artista olandese, forse tra i pittori più celebri e universalmente apprezzati di tutta la storia dell’arte. Ecco la recensione.
Van Gogh – Sulla soglia dell’Eternità è il primo lungometraggio diretto da un pittore, Julian Schnabel. E’ forse per questa ragione che il film presenta caratteristiche più vicine ad un’opera d’arte che ad un vero e proprio film biografico.
La pellicola copre gli ultimi anni della vita di Van Gogh, e non ha nessuna pretesa di essere una pedissequa biografia del pittore, ponendosi piuttosto come un manifesto degli intenti e della poetica dell’artista. La volontà è quella di approfondire l’idea, e il significato della pittura secondo Van Gogh, la conoscenza del suo “atto di dipingere”, un processo fluido, che deve avvenire di getto, senza interferenze, per “condividere con gli altri la mia visione del mondo, per far sentire gli altri vivi“.
Le prime scene mostrano un Van Gogh frustrato dalle atmosfere grigie e cupe della capitale francese, dove viveva a Montmartre ospite del fratello Theo, mercante d’arte e figura di centrale importanza per la vita di Van Gogh. Alla ricerca di luce, cieli limpidi e natura incontaminata, l’artista si trasferisce in Provenza, ad Arles, dove soggiornerà nella famosa casa gialla, ritratta anche in un celebre dipinto.
L’arrivo ad Arles segna l’inizio di una nuova fase artistica per Van Gogh che si immerge completamente nei soleggiati paesaggi provenzali, diventando quasi parte integrante di essi; per dirla alla sua maniera, “parte di un tutto, di un infinito“. Eloquenti le sequenze dedicate alle quasi interminabili passeggiate del pittore trai campi di grano, nelle distese assolate e nelle pianure il cui orizzonte si fonde con un cielo azzurro senza fine.
Emerge chiaramente da queste scene il rapporto di Van Gogh con la natura, aspetto significativo nella sua inquieta vita e fonte di ispirazione imprescindibile per i suoi dipinti. Un rapporto viscerale, inclusivo e totalizzante, come viene testimoniato dalle immagini in cui il pittore si ricopre il viso di terra, disteso in un prato spazzato dal vento, assaporando a pieni polmoni l’aria che lo circonda. E’ qui che la fotografia dà il meglio di sé, si riempe di luce e si esalta.
Di particolare attenzione è sicuramente la regia, che sembrerebbe a tratti quasi amatoriale per le movimentazioni della camera da presa, i cambi di inquadratura scattosi e soprattutto la prospettiva soggettiva, per cui le scene sono mostrate in prima persona, dagli occhi di Van Gogh stesso. Non è di certo casuale la scelta di una regia così dinamica, contraddistinta da immagini sovrapposte, talvolta offuscate, talvolta sfumate rapidamente nelle scene successive. L’intento è senza dubbio quello di riprodurre anche a livello tecnico le angosce e i turbamenti del personaggio, di riflettere le sue frequenti allucinazioni, visioni ed inquieti stati d’animo.
Il ritmo lento, le lunghe sequenze non dialogate e la colonna sonora accompagnano l’artista nella sua esplorazione della natura ad Arles, una natura piena di tinte e tonalità accese, delle quali Van Gogh ha bisogno per nutrire la sua anima perennemente instabile e fragile.
La ciliegina sulla torta è senz’altro la magistrale interpretazione di Willem Dafoe, premiato alla 75° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia con la Coppa Volpi come Miglior attore, e candidato ai Golden Globe 2019 come Miglior attore in un film drammatico. La recitazione è convincente in ogni momento, l’interprete è intenso e perfettamente a suo agio nel ruolo di Van Gogh, tanto da calzarlo alla perfezione nella fisicità, nelle espressioni del volto, nei guizzi balenanti negli occhi. Dafoe dà effettivamente prova di aver assimilato le profonde crisi interiori dell’artista, sospeso costantemente in un limbo tra la sanità mentale e la pazzia. Infatti, come avviene spesso nelle più alte manifestazioni del genio, le menti brillanti alternano momenti di estrema lucidità ad attimi di lampante follia.
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