Il Cinema Invisibile – Fast Food Nation di Richard Linklater
Per la rubrica Il Cinema Invisibile, oggi ci occupiamo di Fast Food Nation diretto nel 2006 da Richard Linklater, interpretato da un cast corale che comprende Greg Kinnear, Catalina Sandino Moreno, Ashley Johnson, Patricia Arquette e Ethan Hawke, e ispirato all’omonimo saggio di Eric Schlosser, anche sceneggiatore insieme al regista. A differenza di Super Size Me, il documentario di Morgan Spurlock, il film di Linklater non si limita a essere una denuncia contro il fast food ma si propone di realizzare un affresco corale sull’America dei consumi di massa.
Don Anderson è un dirigente della catena di fast food Mickey. Informato da un suo superiore circa la presenza di batteri fecali rinvenuti attraverso le analisi nella carne degli hamburger, Anderson deve recarsi nella fabbrica dove vengono prodotti i panini e dove vengono macellati i bovini. Alla sua vicenda se ne intersecano altre, tutte ruotanti attorno alla catena Mickey: una studentessa che lavora presso un fast food della catena decide di licenziarsi per prendere parte a una protesta insieme ad altri militanti ecologisti; alcuni messicani, da poco venuti in America clandestinamente, trovano lavoro proprio nella fabbrica visitata da Anderson.
Mostrare l’altra faccia dell’America attraverso ciò che più la contraddistingue: il fast food. Questo è il principale intento del film e Linklater lo mette nero su bianco fin da subito. Quello che ne viene fuori è un affresco amaro e tremendamente sincero sulla situazione in cui vive il paese oltreoceano, una volta terra dell’agognato (e famigerato) american dream, ora trasformatasi in terra desolata dove l’ingiustizia e lo sfruttamento sono all’ordine del giorno.
La messa in scena di Linklater, regista poliedrico che non rinuncia alla sperimentazione sia tecnica (vedi A Scanner Darkly) o artistica (vedi Boyhood, girato nell’arco di dodici anni), è essenziale e funzionale al racconto, o ai racconti; macchina da presa a mano, fotografia che rinuncia a virtuosismi “alla Lubezki” perché la vera protagonista è la realtà circostante. Per questo alcune scene, soprattutto quelle ambientate in fabbrica, hanno il sapore di un reportage ma l’elemento finzionale della narrazione non viene mai meno ed è questo il punto di forza del film.
La voglia di ribellione viene affidata ai giovani (da sempre protagonisti nel cinema del regista di Houston) a cui appartiene Amber, la studentessa impiegata che rinuncia al lavoro per lottare contro i massimi sistemi. La ribellione, intima e personale, è quella dimostrata anche da Brian (interpretato da Paul Dano), anch’esso impiegato che sputa nel panino ordinato nientemeno che da Anderson, perché è anche da gesti nascosti come questo che emerge la voglia di cambiamento da parte di quell’America giovane e repressa.
Non meno importante è la denuncia contro gli uomini che sfruttano gli immigrati messicani clandestini. In questo senso, la storia di Sylvia, di suo marito Raul e della sorella Coco è emblema di quelli che, arrivati negli Stati Uniti per sperare in un futuro e un lavoro migliori, si ritrovano a dover accontentarsi di una paga per loro sufficiente in cambio di un lavoro a dir poco raccapricciante; perciò, le scene finali al mattatoio rappresentano una discesa all’inferno e fanno accapponare la pelle anche agli spettatori meno sensibili. Tutto ciò non fa parte di un discorso contro i mangiatori di carne, ma implementa invece un’accusa contro il mangiare male, causa poi di una piaga sociale che colpisce non solo i consumatori ma anche i produttori: questo il film lo dice e lo mostra, senza mezzi termini.
Stupisce, invece, la presenza di alcuni attori famosi chiamati a interpretare piccoli ma significanti ruoli: Ethan Hawke interpreta lo zio di Amber, che le trasmette la sua passione libertaria e priva di schemi e regole da seguire; Avril Lavigne interpreta Alice, una ragazza facente parte del gruppo di ecologisti a cui si unisce Amber; Bruce Willis interpreta Harry Rydell, un cinico venditore di carne con occhi solo per i profitti (da notare che Willis è comproprietario della catena di ristoranti Planet Hollywood). L’ironia, dunque, non manca e, anzi, rende il tutto più pungente e graffiante.
Fast Food Nation è un affresco corale che, a distanza di dieci anni, risulta essere ancora attuale, capace di porre domande anche scomode ma anche per questo lecite e doverose che sanno sconvolgere e shockare: cinema indipendente e coraggioso che colpisce duro, come pochi sanno ancora fare. Al contrario di Super Size Me, ironico ma facile nella sua progressione, questo film meritava maggior attenzione, e non solo in America.
Di seguito potete vedere il trailer originale del film.
[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=Q5hA3PN0uic[/youtube]
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