Come riassumere una vita e una carriera come quelle di Jean-Luc Godard, morto oggi all’età di 91 anni? Un autore – o forse l’Autore per eccellenza – che ha impostato un modo di intendere il cinema come forma in continua evoluzione ed espansione e che ha avuto inizio nel 1960 con Fino all’ultimo respiro.
Il connubio cinema-Godard iniziò sulle pagine dei Cahiers du Cinéma fondati da quell’André Bazin che poi sarebbe diventato il padre spirituale e filosofico della Nouvelle Vague. In quelle pagine, Godard espresse tutto il suo amore per il cinema, dando man forte a rivalutare quel cinema da molti considerato di “serie B” come quello di Alfred Hitchcock e del cinema noir americano degli anni Trenta e Quaranta.
All’interno dei Cahiers, Godard strinse amicizia con un altro cinefilo: François Truffaut. Con quest’ultimo, Godard diede il via alla Nouvelle Vague con I 400 colpi (diretto da Truffaut nel 1959) e il già citato Fino all’ultimo respiro, sceneggiato da Truffaut e diretto da Godard. Con quest’opera, girata con un budget ridotto e in luoghi autentici con macchina a mano, il cinema uscì dai teatri di posa per abbracciare la realtà: divennero celebri, poi diventati di uso comune, i jump-cut – o montaggio sconnesso – che rendevano già l’idea di quello che Godard pensava dovesse essere il cinema.
Con le opere successive il pensiero di Godard assume forme sempre più complesse e stratificate accompagnando a un cinema di genere (vuoi la commedia, vuoi il noir) un cinema “di pensiero” atto a indagare i multipli aspetti della realtà. Tra le opere di questo periodo si ricordano soprattutto La donna è donna (1961), Questa è la mia vita (1962), Il disprezzo (1963) e Bande à part (1964) che costituiscono un corpus cinematografico fatto di volti, di frasi e di immagini che sono diventati emblema del pensiero godardiano.
Il cinema, per Godard, è sì un atto finzionale, ma non può escludere la verità da cui esso prende forma: “la fotografia è verità, e il cinema è la verità 24 fotogrammi al secondo“, per citare una delle sue frasi più famose.
Col passare degli anni, Godard abbandona a mano a mano forme e narrazioni tradizionali per spingere il cinema verso limiti e confini sempre più estremi e, per certi versi, più politici. E’ il periodo del Gruppo Dziga Vertov che va dal 1968 al 1972 durante il quale emergono le idee politiche dell’autore, come dimostrano La gaia scienza (1968) e Vento dell’est (1970), in cui si fa sempre più marcata una critica nei confronti della borghesia.
Ma è con l’avvento del video che Godard può essere finalmente libero di sperimentare e dare forma ai propri pensieri. Tutto il suo cinema degli anni Ottanta e Novanta, e ovviamente quello più recente, è un cinema sperimentale in cui il regista dà libero sfogo a tutta la sua poetica, a partire da Numéro Deux (1975) fino alla sua ultima fatica Le livre d’image (2018).
In tutti questi lavori, Godard assembla immagini, suoni, brani musicali, spezzoni di film, riprese naturali, citazioni di frasi, giochi di parole e quant’altro e che trovano il loro culmine massimo nelle Histoire(s) du Cinema, iniziate nel 1988 e ultimate nel 1997 e che occorrerebbe un libro intero per spiegarle.
Quella di Godard è una filmografia pressoché sterminata, soprattutto da quando iniziò a usare il video, difficilmente catalogabile e di difficile comprensione. Ma sotto la coltre di film-saggi, le sue opere sono tuttora fonte di ispirazione per chiunque voglia riflettere sul ruolo dell’immagine e del cinema, oggi come domani.
“Ora ho delle idee sulla realtà, mentre quando ho cominciato avevo delle idee sul cinema. Prima vedevo la realtà attraverso il cinema, e oggi vedo il cinema nella realtà.” (Jean-Luc Godard)
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