Room

La recensione di Room – Il rapporto tra madre e figlio in condizioni estreme

Il regista Lanny Abrahamson porta sullo schermo Room tratto dal romanzo di Emma Donoghue e da essa stessa sceneggiato, presentato con successo al Toronto Film Festival dove ha vinto il People’s Choice Award e candidato a quattro premi Oscar tra cui quello come miglior film.

La trama

Jack è un bambino che non conosce nulla del mondo perché nato in un capanno di pochi metri quadrati. Vive con la madre Joy che è stata rapita da “Vecchio Nick” sette anni prima e che si presenta regolarmente per portare cibo e medicine e per fare sesso con la donna, proibendogli così di uscire per qualsiasi motivo.

Il giorno del quinto compleanno di Jack, che comincia a fare domande sullo “spazio” esterno, Joy trova un escamotage per riuscire a scappare da quella prigione nella quale sono costretti a vivere: ma loro saranno pronti a uscire nel mondo?

Il film

Due personaggi, uno spazio chiuso: queste sono le basi su cui si struttura parte del film di Abrahamson. Il mondo, per Jack, è rinchiuso in quelle quattro mura e l’unico mezzo di comunicazione col mondo esterno è una televisione che, come gli ha sempre spiegato la madre, funzione con una magia. Ma a cinque anni, la magia deve finire se si vuole aspirare alla libertà da sempre negata, nonostante al piccolo quel piccolo spazio piaccia.

Solo attraverso la fantasia del bambino quello spazio limitato ci sembra enorme, per niente claustrofobico (a differenza, invece, di quanto accadeva nella seconda parte di The Babadook, che condivide con questo film la tensione emotiva che si crea tra una madre e un figlio, e per questo i due film parrebbero due facce della stesa medaglia): se Jack si trova bene in quel contesto angusto, lo stesso non si può dire per la madre che, esaurite le scuse sul perché si trovano in quella condizione, decide di tentare una fuga.

A metà del racconto, il film si trasforma: da uno spazio chiuso si arriva in un contesto aperto, quel mondo esterno che Joy ha sempre sognato di far vivere a suo figlio il quale, però, fatica ad ambientarsi. Piano piano, però, Jack prende le misure di ciò che fino a quel momento non aveva mai visto nè toccato mentre la madre, pervasa probabilmente da sensi di colpa, entra progressivamente in crisi.

Così, il film dimostra due facce: uno spazio chiuso in cui il bambino può, con la sua fantasia, immaginare il mondo mentre la madre cerca in tutti i modi di fargli capire ciò che il mondo è in realtà, e dall’altra abbiamo un mondo esterno in cui la madre si sente reclusa, vivendo continuamente in una condizione psicologica che la ingabbia. La forza nel film risiede anche nell’amore che Joy prova per suo figlio: un’amore che però deve trasformarsi in senso di morte quando giunge il momento di tentare la fuga (una delle scene più emotivamente forti, nonostante non si veda nulla di concreto, ma che viene vissuto attraverso gli occhi di Jack grazie all’uso della soggettiva).

La regia di Abrahamson è lucida, frantuma lo spazio restituendocelo nella sua parzialità e alternando continuamente il punto di vista di Jack a quello di Joy, immergendo così lo spettatore nei due mondi e nel rapporto tra i due personaggi, in costante tensione emotiva e per i quali si spera sempre un finale positivo. Oltre alla regia, il merito va anche ai due protagonisti: la Larson, vincitrice di un Golden Globe e candidata all’Oscar come miglior attrice, è una rivelazione, così come anche il piccolo Jacob Tremblay, capace di tener testa non solo alla madre, ma anche a una sceneggiatura e a un ruolo non semplici.

Un piccolo, grande film che merita un’attenzione particolare per come è riuscito a gestire un tema forse non nuovo ma con un punto di vista certamente efficace in grado di destare nell’anima un senso di angoscia che resta immutato per tutto il film, anche quando quest’ultimo esce dalla dimensione chiusa per arrivare a un contesto sicuramente più aperto in termini di spazio, ma non per questo più libertario (e liberatorio).

Voto: 8,5


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