La recensione di Tutti vogliono qualcosa – Linklater e i giovani di ieri, tra goliardia e spensieratezza
Tutti vogliono qualcosa (Everybody Wants Some!!) è un film diretto da Richard Linklater e interpretato da Blake Jenner, Zoey Deutch, Ryan Guzman, Tyler Hoechlin, Glen Powell e Wyatt Russell. Il film è considerato una sorta di sequel spirituale di La vita è un sogno (Dazed and Confused), diretto dallo stesso Linklater nel 1993, di cui ne riprende le tematiche.
La trama
1980. A tre giorni dall’inizio delle lezioni, in un college americano arriva un gruppo di matricole, tutti giocatori di baseball. Tra essi spicca Jake col quale instaura da subito un rapporto di amicizia con i compagni di squadra che sono anche coinquilini. I tre giorni che li separano dall’inizio delle lezioni sono contraddistinti da feste, serate in discoteca, sesso, fumo e alcool. Jake, però, fa la conoscenza di Beverly, studentessa di arti performative che lo immerge nel proprio universo artistico, ben diverso da quello degli amici di Jake.
Il film
Che a Linklater interessi il mondo giovanile, soprattutto quello studentesco, è cosa nota. Lo ha dimostrato sin dai tempi di Slacker (1991), passando per SubUrbia (1996) e il capolavoro Boyhood (2014). Tutti vogliono qualcosa riprende tematiche e stile di La vita è un sogno, con le opportune modifiche e aggiornamenti; se il film del 1993 era ambientato nel 1976 esattamente l’ultimo giorno di scuola, qui le vicende vengono dispiegate lungo i tre giorni che separano i protagonisti all’inizio delle lezioni.
In un certo senso, dunque, il film è ambientato nel confine che separa la goliardia dalla serietà, ovvero in quell’intervallo tra il gioco e lo studio, tra l’adolescenza e la maturità. I tre giorni servono a Linklater per mostrare la vita di questi ragazzi e la loro ricerca sfrenata di qualsiasi tipo di divertimento; ma il regista non li guarda dall’alto, anzi, partecipa alle loro vicissitudini lasciandogli lo spazio necessario per agire indisturbati, lasciando che la macchina da presa li riprenda a debita distanza.
Questa distanza viene meno nelle scene d’intimità tra Jake e Beverly dove prevalgono i primi piani, quasi a voler rendere lo spettatore più complice di questa neonata storia d’amore, ponendo perciò una linea di demarcazione tra il mondo scherzoso dei compagni di Jake e quello più intimistico (e adulto) di Beverly. Il rapporto che Jake instaura con Beverly pone fine (provvisoriamente?) a tutto ciò che il protagonista ha fatto nei giorni precedenti, e lo proietta verso un domani in cui deve assumersi le proprie responsabilità.
L’universo goliardico/scolastico risente, come anche per La vita è un sogno, dei modelli di American Graffiti di George Lucas e Animal House di John Landis, ma senza lasciar prevalere nostalgia o comicità neo-demenziale: qui (merito anche di una colonna sonora trascinante e quasi perpetua) viene riproposto un passato più libero, visto con vitalità e spensieratezza davvero contagiose, accomunate da una profondità delle caratterizzazioni dei personaggi e una sceneggiatura (del regista) che s’inventa dialoghi memorabili, come ad esempio quello della scena in cui Jake a alcuni suoi compagni fumano nella stanza e nella quale emerge un monologo sugli atomi che ben simboleggia il gruppo di giovani studenti e giocatori di baseball.
A differenza dei predecessori di Lucas e Landis, che indicavano il futuro dei personaggi attraverso didascalie, Linklater sceglie una chiusa sommessa, quasi malinconica, in netto contrasto con quanto narrato fino a poco prima; alla fine, dopo essere stati liberi, ai protagonisti toccherà fare i conti con la vita adulta, iniziando un percorso difficile ma, forse, pieno di soddisfazioni. Il film perde un po’ di forza nella sequenza dell’allenamento in cui paga, forse, l’eccessiva lunghezza, ma non viene meno la complicità tra i vari protagonisti e quella tra loro e lo spettatore, ormai dentro il loro universo.
Tutti vogliono qualcosa è un film spensierato, ricco di humour, girato con mano sicura e interpretato da un gruppo di giovani attori ben amalgamati con cui il regista (che probabilmente si riconosce e s’identifica in Jake) instaura un rapporto che è complice e non subalterno: sono loro a muovere le vicende, la macchina da presa li deve soltanto seguire: memorabile, in questo senso, la scena ambientata nello spogliatoio, risolta con un piano-sequenza naturale e per niente virtuosistico o ridondante. Linklater abbassa le ambizioni di Boyhood, ma non è necessariamente un male e quello che ne risulta è un film compatto e sincero.
Attenzione: da non perdere i titoli di coda in cui gli attori cantano guardando in macchina e aggirandosi in lungo e in largo per il set del film.
Voto: 8
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