Una favola sporca e crollante nel grigiore crepuscolare di un microcosmo provinciale a stelle e strisce, in cui un giovane cavaliere che luccica, anzi no, abbaglia, è l’eroe perchè sopravvive al mestiere, fa lo straordinario tutte le sere, un paladino della tavola quadrata, piena di cibo che porta lui a casa. Un dramma, però, non ben definito, una tragedia a lieto fine, nella quale tempo, luogo e azione sono rispettate. Il caso degli eventi busserà alla porta – di una casa in fiamme – per liberare il cavaliere dalle sue catene. Si innamorerà di una principessa errante (Juliette Lewis), che vive in un castello mobile.
Gilbert Grape (Johnny Depp) è un giovane umile uomo, che correndo si carica sulle spalle un’intera famiglia, creata da una dolce donna ora grande come una balena, che non esce di casa da 7 anni, con una vita che sta andando in cancrena. La madre (Darlene Cates) vive per mangiare, fuma e guarda la televisione, così cicciona che distrugge le fondamenta della casa costruita dal marito, morto impiccato con la corda del provolone. Vivono in un paesino dello Iowa, così stupido che neanche le giostre ci sono. L’attrazione per i bambini del country è spiare la balena spiaggiata sul divano, ridono e scappano, spia dalla finestra il bambino americano. Un paesino di qualche centinaio di anime, che in qualunque parte del mondo scavando potremmo trovare; un comune comunissimo, dove tutti fanno il proprio mestiere, in cui tutti vanno a fare la spesa nello stesso supermercato, un borgo in cui niente può accadere.
Gilbert Grape la vorrebbe vivere questa giovinezza, la sua vita si aggroviglia, è stanco, ma deve pensare alla famiglia. La sua frenesia ce lo fa capire. Un quasi uomo che fa da padre, schiacciato da un madre grassa lasciatasi andare e un fratello che si ammazza se non stai attento: un flagello. Ma si vuole bene questa famiglia e vuole restare unita, lo si nota in una scena in cui tutti insieme guardano commossi e attenti “Stazione Termini” del nostro Vittorio De Sica.
La perizia del regista Hallstrom sta nella capacità di dosare il racconto di Peter Hedges, anche sceneggiatore. Non fa mai stramazzare l’intreccio in una storia strappalacrime. Non è un film pietoso. Uno di quei cineasti che vent’anni fa metteva in scena il sentimento umano da dentro visto da fuori. La narrazione è fluida poiché il regista non sfrutta elementi caratteristici per caricaturizzare la macchina familiare. Ci saranno degli stereotipi, certamente, ma sono clichè americani, negli anni in cui si consolidavano.
Piacevole è guardare questo film, pieno di dettagli descritti come in un ritratto di famiglia; capiremo, sequenza dopo sequenza, che la descrizione dei sentimenti è spulciata in ogni dissolvenza. Lo stato d’animo dei personaggi di questo paesino, Endora, sarà risaltato nell’artificio tecnico della fotografia: caliginosa, opaca.
Elemento grandioso, che aiuta il film in una completezza narrativa, è l’interpretazione di un DiCaprio così giovane, ma così giovane, che si nascondeva dalla madre, in quegli anni, per fumare. Attore fuori dalla classe Leonardo DiCaprio a diciotto anni. La naturalezza con cui l’attore losangelino incarna l’ultimogenito ritardato e iperattivo di questa famiglia è disarmante, un talento istintivo. Con le labbra screpolate e la terra sotto le unghia, la pantomima di un vero, povero, adolescente disabile che alle persone si avvinghia. Il ritardato Arnie Grape sfrega il dito contro il naso, come un tic, ripetutamente, come per massaggiare la parte esterna del suo cervello. Non si lavò davvero durante le riprese l’attore!
Uno studio recitativo da professionista dietro un’interpretazione forte che nella sceneggiatura iniziale non era fino a questo punto richiesta. La rappresentazione di DiCaprio fa diventare il suo personaggio nel film fondamentale. Sembra di vedere un documentario. Non vi fa venire i brividi la prima candidatura agli Oscar dell’attore nel 1994? Non che questa nozione sia indicativa. Ma allora: cos’è il talento? Chi è talentuoso?
Brutti e antipatici sono gli elogi fine a se stessi, ma scorretto sarebbe non sputare la “biologica” capacità recitativa di un ometto che l’Oscar lo vincerà, dopo tante delusioni, nel 2016. Dopo tutti questi anni a pensare “Leonardo, dai vinci!”.
Diamo a Leonardo quel che è di Leonardo. Si dice così, no?
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Perché usa l’espressione “ritardato”. È una mancanza di rispetto vergognosa.
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