Torna la rubrica La Satira di Castrense, oggi è dedicata a Perfetti Sconosciuti, il film diretto da Paolo Genovese con un cast formato da Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Anna Foglietta e Marco Giallini.
“Tesoro, che faccio, la metto qui la macchina? Sì, dai che non ci arriviamo, veloce.”
Scendiamo, antifurto e si cammina come dei maratoneti. Siamo in ritardo perché quella bestia di mia moglie doveva scegliere il vestitaccio adeguato. C’è poca fila e mi chiedo come sia possibile se è la prima volta che proiettano questo film. Quindi mi giro verso quel Cerbero che ho sposato, che col pensiero mi sussurra aggressivamente:
“Non c’è fila perché siamo in ritardo, coglione!”
Che poi il signor Ritardo l’ha portato lei. Quindi entriamo. Dove ci sediamo?
“Amore qui ci sono due posti liberi, dai, dai, dai.”
Ma guardo un attimo e comprendo che i due posti non sono vicini, anzi così lontani che per l’angolazione è come se fossimo uno seduto su una vecchia sedia di legno di un piccolo paesino in provincia di Messina, l’altro su una poltrona di velluto blu in un attico a Milano, dove se ti affacci vedi la Madonnina. Ovviamente io, il film, stasera, lo vedrò a Messina. Ma va bene così, almeno siamo separati, siamo sconosciuti per due ore. Due misere ore.
Inizia. Si prega di spegnere i cellulari durante la visione del film.
Quattro uomini che si conoscono da una vita vanno a cena con le loro compagne, tranne uno che ancora non vuole farla conoscere. La storia è chiara: dopo i convenevoli di rito, i “come stai?tutto bene”, le cazzatine, gli insulti, si ritrovano durante la serata conviviale a fare un gioco opprimente: leggere tutto quello che arriva al cellulare. C’è chi è d’accordo, chi sbuffa. Una roulette russa a colpi di WhatsApp.
Dietro una trama limpida e semplice si cela una caratterizzazione dei personaggi da professionisti. Merito di chi ha fatto passare dal cervello alla penna l’idea di questo film.
Rocco ed Eva sono sposati, con una figlia succhiadenaro che scarica le ipocondrie adolescenziali sul padre, invece che sulla vipera madre; lei è un’analista affermata, bella e impalata (un po’ clichè l’analista che non capisce i figli), che ama il marito, chirurgo plastico, ma le tette le rifà l’amico del papi. Su un altro versante ci sono Lele e Carlotta, una coppia più classica e annoiata. Trainano come un grande carrozzone una monotonia coatta, dietro la quale si ammucciano dei segretucci e dei segretoni.
Mentre Cosimo e Bianca sono i novellini. Lei un po’ timida ma riappacificatrice, lui un po’ un azzeccagarbugli de periferia alla ricerca della “svolta”, credono al loro sesso giornaliero come una religione. Tanto freschi sono, così insicuri saranno.
E poi c’è Peppe, quello che un po’ tutti ci troviamo nel gruppo. Il professore precario, quello che racconta le cose a metà da una vita, che chiamiamo quando manca qualcuno per la partita di calcetto, quello che si inventa le scuse. Ma quello che poi il cuore, oltre alla panza, lo tiene grande.
Tutti i personaggi sono pitturati efficacemente. Ciò che è veramente salda, però, è la struttura narrativa del film. Costruita da un regista che dopo commediucole come “Immaturi”(2010), sale di qualche gradino: è un operaio del cinema, prende qualcosa da qualcuno e da qualcun altro per creare un prodotto finito. Sfruttando – intelligentemente – le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, l’autore del film crea un climax di suspense, dal quale intuiamo che qualcosa fuori salterà, ma non sappiamo da chi, come e quando.
La ragnatela di sguardi è la chiave del film per un osservatore attento: si capisce chi vuole e chi non vuole, chi trama e chi è sincero. Si comprende chi soffre.
Quello che salta in testa ad un tratto è l’insieme di norme morali e sociali che influenzano l’essere delle persone. Il Super-io per Freud, la maschera per Pirandello. Il rimando quindi ti illumina subito la mente: pensi a Peppe, l’esempio perfetto, l’uomo a metà che non racconta proprio tutto, costretto ad indossare delle maschere che lo porteranno ad avere un’altra concezione di verità, usata dall’individuo per uniformarsi con la società.
E quando l’equilibrio tra le tre personalità freudiane – Io, Es, Super-io – non c’è, la disgregazione dell’individuo genera una sola cosa: la nevrosi; questa porterà il barbuto e pacchiotto Peppe a voler fare il gioco dei telefonini, perché come “quei serial killer” avrebbe voluto essere smascherato.
Arriva l’ intervallo e mi fumo una sigaretta da seduto a boccate grandi, sono preso dal film e faccio caso ad una coppia, tre o quattro file prima di me. Lei va a comprare le birra (o almeno sembra), lui invece sta seduto, esce il cellulare così luminoso che sembra aver cacciato dalla tasca la Madonna. Io continuo ad osservarlo e allora vedo con i miei occhietti bastardi che guarda dove sia la moglie per poi sogghignare come un diciassettenne per un messaggino carino arrivato. Butto la sigaretta a terra. Rifletto che il film siamo noi, adesso. Il confine non c’è.
La centralità del film dopo il simulato tradimento omosessuale da parte di Lele, marito sempliciotto, si sposta. Prosegue verso una scazzottata tra etica e società.
Per uno scambio di cellulari si trova per un paio di ore addosso il vestito del “frocio”, che a questo punto, frittata fatta, lo indossa per capire la reazione di chi lo circonda. Non v’è da stupirsi se tra gli amici il non aver detto la vera natura sessuale, l’aver mancato meno agli assiomi della virilità, l’essere “frocio”insomma e averlo tenuto nascosto è peggio dell’adulterio. O meglio: passa in secondo piano.
Nelle varie eclissi esistenziali ci ritroviamo a dare spazio alla vita pubblica, che domina dilagante la nostra realtà da salottino, tralasciando l’individualità, della quale ormai non siamo proprietari: siamo affittuari. Avendo alla fine, sempre, le mutande sporche di vita segreta. Che nessuno, mai, ci controllerà.
E’ un film popolare Perfetti Sconosciuti, nella sua accezione più umile e autentica. Pirandelliana continua ad essere la riflessione sulla rappresentazione del sé presso gli altri. La preoccupazione quasi antropologica di non essere quello che fino ad allora aveva immaginato il coro di chi ci circonda. Di essere centomila, più che uno, più che nessuno.
La regia non è pomposa, è essenziale invece e coordina il connubio tra tempi comici ottimi e colpi di scena da commedia francese. Uno dei pochi elementi forse nocivi a un film ben costruito è l’eccessivo didascalismo; i dialoghi, soprattutto quelli finali, sono troppo dottrinali e fanno un po’ puzza di recita, portati in situazioni dove, invece, doveva esserci un po’ più di silenzio. Anche le musiche sporadiche da “Centovetrine” avrebbero dovuto essere rimodulate.
Il crucciarsi progressivo nel volto di Valerio Mastandrea, mentre la sensibilità matura di un medico che sembra un vitellone, ma in realtà è un bue buono, da parte di Marco Giallini, ci fanno comprendere che scrivere un buon copione per attori con i coglioni porta ad un ottimo risultato.
Il film comunque sfrutta la dittatura tecnologica all’interno di una narrazione classica, nella quale si utilizza la tecnocrazia per inserire il melodramma nella commedia. Efficace come una puntura.
La tradizione più recente ci fa pensare a “Carnage”(2011) del collega francese Roman Polanski, tragicommedia ambientata in un salotto medio-borghese, che tocca l’apice con la scena del vomito della Winslet, oppure, semplicemente, il richiamo più immediato è quello di “Metti, una sera a cena”(1969), di Giuseppe Patroni Griffi, musicato dal maestro Morricone e interpretato da, una tra tutti, Florinda Bolkan.
Pellicole che, a loro volta, riprendono la tradizione del teatro del salotto borghese di Henrik Ibsen, caratterizzato da un centro di gravità per una coralità di personaggi. Processo iniziato da Diderot, considerando il realismo borghese e proponendo il valore pedagogico del teatro, con la capacità di fare impressione sugli spettatori, estraendo nozioni dalla loro vita vissuta. Questo, in qualche modo, compie dopo secoli Paolo Genovese con Perfetti Sconosciuti. Egli, innegabilmente, non ha inventato niente nel soggetto di questo film. Ha preso, modellato e riproposto. In maniera impeccabile.
Ribecco quindi mia moglie per uscire insieme. Ci fermiamo fuori a fumare una sigaretta come tante altre ciminiere impazzite alla ricerca dell’accendino salvatore. Lei sputa parole di cortesia tra un tiro e l’altro con delle amiche che non conosco. Io guardo la gente che esce e mi arriva un messaggio. Mi sale una forte carica elettrica dai piedi fino alla testa, sono ancora suggestionato dal film. E’ una mano di poker a carte scoperte questo film, penso. Strappo il cellulare dalla tasca come fosse una pistola, sono ancora più eccitato, e leggo: Unicredit – pagamento effettuato con carta di credito presso bla bla bla. Mi guardo attorno e faccio un sorriso malizioso anche io. Nessuno saprà il mio segreto. Tanto stasera ho già cenato.
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