Per molti venerdì “sono andato a letto presto”. Mi è accaduto questo perché un signore che di mestiere fa i film ha deciso bene di non farmi andare al cinema questa volta. Costa troppo e c’è un fastidioso chiacchiericcio. Ha deciso quest’anno di sottoporci alla sua nuova creazione direttamente da casa. E io lì, tra le preoccupazioni che mi dà l’autunno, per settimane ho pazientato per la prima puntata come fossero i mondiali. E come se l’Italia fosse arrivata in finale.
E quando arrivano i mondiali – si sa – ci si deve preparare. Pertanto seduto sul mio trono rosso di pelle rovinata indosso l’armatura di cotone, assistita da un mantello di pile. Calzari scrupolosamente di spugna bianca e occhiale quadrato. Mano sinistra telecomando tv. Mano destra – la prediletta – telecomando sky. Sul tavolino – in caso di necessità per secchezza delle fauci – birra familiare economica. Fischio d’inizio.
Fuma Marlboro Gold, è carismatico e beffardo: il primo Papa americano è Lenny Belardo. Il giovane vicario di Cristo fu in vita cardinalizia indulgente e obbediente, sarà in quella pontificia conservatore e irriverente. Il passaggio per un quarantasettenne americano a sommo pontefice risulta inaspettato (quasi da tutti) all’interno del Sacro collegio cardinalizio, poiché è scarsa la sua consistenza politica. Si battezzerà Pio XIII e tra debolezze giovanili e nevrosi personali combatterà a colpi di pastorale chi vorrebbe giostrare le sue mosse o chi – addirittura – avrebbe voluto essere al suo posto.
Viene dunque palesata – neanche in maniera così netta – la lotta, all’interno delle rispettive istituzioni, del potere spirituale. Lotta per il potere che esiste antropologicamente in tutti i gruppi umani, con la differenza che in Vaticano le macchinazioni purpuree sono segrete. I più votati alla prima fumata nera non vanno mica, il giorno dopo, a fare lo scontro su LA7 da sua eccellenza Enrico Mentana. I nostri antenati non seppero, noi non sappiamo e i nostri nipoti – spero di contraddirmi – non sapranno niente sulle dietrologie clericali dello stato più piccolo e più ricco del mondo.
Attraverso la consulenza di uno dei più importanti storici del cristianesimo, Alberto Melloni, il regista napoletano non delinea una critica violenta alla classe cattolica, bensì spoglia le contraddizioni dell’essere umano compreso in questo ceto sociale. L’arcano della chiesa sta lì: come far sposare la dottrina dell’Onnipotente con il lavoro quotidiano della multinazionale del credo cattolico. Paolo Sorrentino racconta la popolazione ecclesiastica per quella che è: esseri umani tra gli umani. Uomini e donne che dopo reali o fittizie vocazioni abitano la fede in Cristo. La loro bontà, la loro perizia professionale e la loro ipocrisia. E chi si illumina d’immenso mostrando un poco la lingua al prete che dà l’ostia o chi si sente in Paradiso cantando dei salmi un poco stonati.
Papa Pio XIII possiede la Grande Scaltrezza di sfruttare le debolezze di chi l’ha fatto salire sul trono della Sacra Romana Chiesa per girarle a suo favore. È un bastardo. Furbo, ma fragile. La sua più interna lacerazione è l’abbandono da parte dei genitori. È un uomo angariato dai pensieri prima di essere un Papa oscurantista. Qui evidente è – nelle continue sequenze oniriche che serpeggiano all’interno della serie – il motivo autobiografico del cineasta napoletano e della perdita dei genitori in età adolescenziale, che ha segnato – dichiarato da egli stesso – la sua vita per sempre.
Il nuovo pontefice, sentendosi ingannato da chi l’ha creato, ha maturato un rapporto singolare e burrascoso con l’unica certezza infantile che aveva: Dio. Quindi la religione di un miliardo di individui al mondo è legata a un uomo accompagnato al “ballo della fede” da una traballante dottrina.
Ma nessuno ha letto tra le righe della sceneggiatura un rimando a qualcosa di già visto nella figura di Lenny Belardo? L’istrionismo maledetto, i movimenti nervosi e lo sguardo di Gian Maria Volontè nei film di Elio Petri? Sappiamo che il maestro Paolo ha sempre considerato il cinema petriano.
Nel frattempo una panoramica si stringe fino a un primo piano con una zoommata totale, per luce e atmosfera visiva sembra esser dentro a Barry Lyndon(1975). Luca Bigazzi, prestigiatore delle luci, illumina tutto ciò che si possa illuminare con luce naturale, come se il giudizio divino voglia far trapelare.
Il fenomeno è dato anche dai costumi, che nella loro originalità cromatica ricordano la sfilata clericale grottesca e tenebrosa del film Roma(1972) di Federico Fellini.
Il diegetico si catapulta verso l’extradiegetico. E viceversa. L’organo liturgico incontra la musica popolare remixata da privè in discoteca. E viceversa.
Pius the thirteenth è più che un conservatore, riesuma i polverosi dogmi non dal ripostiglio, ma dal garage, anzi dalle cantine della Sacra Romana Chiesa. È contro l’aborto, contro il divorzio e vuole ampliare il perimetro vaticano. E’ un vanaglorioso nel ping-pong col primo ministro Stefano Accorsi. Tornerà a sedere sulla sedia gestatoria e indosserà il triregno, aboliti entrambi da Paolo VI nel 1963 come molte delle usanze e dei costumi papali fino ad allora obbligatori. E non si farà vedere in pubblico. Come Banksy.
Che poi la prerogativa di molti altri pontefici nella storia – reali e non inventati – non è stata la stessa del nostro giovane Santo padre? Condurre al centro dell’attenzione comune i rebus della chiesa, che poi i fedeli dovranno risolvere?
La crew di questo Papa postmoderno sarà formata oltre che da Suor Mary (Diane Keaton), sua balia/educatrice che lo accolse in orfanotrofio, da alcune enigmatiche (ma non troppo) figure.
Andrew Dussolier (Scott Shepherd) è molto per Lenny: fratello spirituale prima che migliore amico. Entrambi hanno una fede che si rivelerà viva ma contraddittoria. Il loro percorso sarà diverso. Il cardinale dai capelli arancioni preferisce l’odore della merda e della vita all’odore d’incenso e di morte. Seguirà dei profumi sbagliati.
Ci sarà l’onesto alcolista monsignor Gutierrez (Javier Càmara) spedito a New York e la direttrice marketing con il tailleur stirato e la pergamena di Harvard appesa al muro. E poi Esther (Ludivine Sagnier), moglie di una guardia svizzera, che avrà un figlio grazie al “miracolo” del sommo pontefice.
Ma il grande caratterista dello spettacolo seriale dell’autore napoletano è il cardinal Voiello. Il tratteggio buffonesco della penna di Sorrentino si unisce alla visione caricaturale dei personaggi di Eduardo De Filippo in un grande attore napoletano. Ma che deve parlare inglese!
Con questo ruolo Silvio Orlando ha finalmente avuto la visibilità che meritava; non per acquisire fama e far scaricare la penna con più autografi, semplicemente per far arrivare più lontano il suo portento. Il cardinal Voiello (nome ispirato probabilmente dalla pasta partenopea) è un congiurato uomo del quale i tratti sono stati ripresi, forse, da un cardinale che abita in un’umile dimora di 700 metri quadrati, di cui purtroppo non ricordo il nome.
Ma scorticando la superficie della sua bramosia di potere, sgretolando il suo esterno machiavellismo si troverà un uomo-babà, che dopo una giornata di inciuci andrà ad accudire Girolamo, un ragazzo disabile. La fede sua è per il Napoli calcio prima che per il Dio sovrano. Al trittico di Giotto preferisce il trittico d’attacco Insigne, Hamsik, Higuain. Crederà di far dimettere il Papa, ma si ritroverà inguaiato in contropiede.
Il fellinismo ilare e melodrammatico, tra continui dialoghi e sequenze oniriche, è – non ci sarebbe neanche più il bisogno di dirlo – il grande abito che indossano i film di Sorrentino. Egli gestisce la sua donna come una diva degli anni ’60 in ogni dettaglio/rimando/capriccio. Dalla citazione di Deserto Rosso di Antonioni “mi fanno male i capelli” all’immagine ferma sulla pipa ricostruita dal Papa, rimando artistico da “La Trahison des images” di Renè Magritte.
E no, la donna di cui vi parlo non è imbellettata (come nella celebre parabola di Pirandello) ma curata: periferica ma gigantesca differenza. E se il vestito già lo indossa, la musica nel cinema di Sorrentino è l’acconciatura, la collana, il rossetto: che contraddistinguono una donna da una gran donna. È una meravigliosa musica mulatta nel sound, che tende al mescolamento tra alto e basso. L’elettronica di Recoundite sposa il classico di Shubert.
Ma è una donna tanto splendente quanto, alle volte, esagerata nei toni e nel linguaggio. Forzati sono i contenuti che riguardano il rapporto tra il sesso e le figure ecclesiastiche. E’ mai possibile – pur in un futuro distopico – che un cardinale in una festa mondana romana venga prima sedotto dalla siliconata proprietaria di casa e poi stuprato dal figlio della stessa?
Il regista de Le conseguenze dell’amore (2004) ha parlato del mondo cattolico in così tante ore che permettono facilmente di far depositare per bene nell’esperienza dello spettatore una delle passioni del nostro cineasta: il grottesco.
Questa non è una serie tv. È una grande opera in 10 ore. Il dubbio non c’è se si pensa che le strutture narrative di una serie televisiva sono lontane da quelle di The Young Pope. Egli riesce, però, ad amalgamare il composto con l’ausilio di una parolina magica che gli piace tanto: ritmo.
L’odore delle case dei vecchi è in Vaticano.
Ma la partita è già finita e io ancora guardo il campo. Mi alzo per sistemarmi l’armatura e col culo, risedendomi, pesto il telecomando. La tv si sintonizza su un canale casuale in cui c’è un uomo con la faccia arancione che dice di voler costruire un muro tra quella confinante e la sua nazione. “Minchia che squilibrato!” penso. “Ma questa serie tv come si intitola?”
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