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Oscar 2019 – L’edizione più politica e semplice di sempre

Anche l’edizione numero 91 degli Academy Awards, ovvero gli Oscar, si è conclusa. E possiamo dire che si è contraddistinta per la sua politicità e semplicità. Vediamo perché.

In molti hanno visto la vittoria di Green Book come un forte messaggio politico dell’Academy al governo, ma non a tutti questa vittoria è andata giù. Uno su tutti Spike Lee, vincitore per la miglior sceneggiatura di BlacKkKlansman, il quale voleva lasciare il teatro anticipatamente in segno di protesta. Per molti, infatti, Green Book è il film “furbo” fatto dai bianchi per compiacere la gente di colore (e la critica, ça va sans dire).

Gli Oscar 2019 verranno ricordati dunque come gli Oscar più politici di sempre, con la vittoria di Rami Malek che nel suo discorso di accettazione ha ribadito che Freddie Mercury era un gay emigrato e che lui stesso, Malek, ha origini egiziane.

Eppure, anche la sua vittoria è stata vista all’insegna del politically correct, facendo storcere il naso a qualcuno: davvero meritava più di Christian Bale? Forse quest’ultimo non ha vinto perché il personaggio di Dick Chaney, di destra, è associato a Bush Jr.? Facile pensarlo.

Se l’è cavata alla grande Roma, ma più che il film il vero vincitore è stato Alfonso Cuarón che si è portato a casa tre statuette: regia, film straniero e fotografia. ¡Que viva México!, ma l’anno prossimo l’Academy dovrà guardare altrove.

A Roma è stato preferito Green Book come miglior film, e qui la domanda-provocazione sorge spontanea: e se l’Academy avesse premiato il film di Cuarón come miglior film dell’anno per dare l’Oscar come miglior film straniero al bellissimo Un affare di famiglia del giapponese Hirokazu Kore’eda? Sicuramente ci avrebbe guadagnato, ma sarebbe stato meno semplice.

Ecco, la parola chiave per riassumere questi Oscar può essere questa: semplicità. L’Academy non ha voluto rischiare premiando quei film più “semplici”, più popolari e meno coraggiosi, aprendosi (o chiudendosi, dipende da come la si guardi) per toccare corde meno autoriali e più mainstream. Il che non deve essere necessariamente un male, ma così facendo si corre il rischio di cadere nella banalità.

I quattro Oscar di Bohemian Rhapsody, la vittoria del “Davide” Green Book contro il “Golia” Roma, i discorsi di accettazione di Rami Malek e Spike Lee sono proprio sintomo di questa semplicità che strizza l’occhio al pubblico (entrambi i film hanno ottenuto uno straordinario successo al botteghino), mentre dall’altra rimarcano l’aspetto politico che negli ultimi anni sta prevaricando.

Dimenticandosi, così, dell’elemento più importante: il cinema.



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