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[Netflix] La Recensione della serie tv Lemony Snicket – Una serie di sfortunati eventi

Lemony Snicket – Una serie di sfortunati eventi è la nuova serie televisiva prodotta da Netflix che ha tra i protagonisti Neil Patrick Harris, il Barney Stinson della fortunata serie CBS, How I Meet Your Mother.

La serie era stata affidata a Mark Hudis che però ha lasciato il progetto a gennaio 2016, ed è stato sostituito da Barry Sonnenfeld, noto produttore di serie televisive come Pushing Daisies. Accanto a lui, in veste di sceneggiatore ed executive producer, Lemony Snicket, alias Daniel Handler, ossia lo scrittore dell’omonima serie di romanzi di cui lo show, andato in onda il 13 gennaio in 8 puntate che comprendono i primi 4 libri, è l’adattamento.

Già dalla sigla si capisce che si va incontro a qualcosa di diverso e lo spettatore è messo nel giusto mood, cupo ma ironico. È già qui che avviene la prima rottura della quarta parete da parte del coro (sempre Neil Patrick Harris), che ammonisce dal proseguire nella visione perché troppo spaventosa e cupa, adducendo come tesi un piccolo spoiler degli avvenimenti ogni due puntate.

Ci conduce attraverso la storia Lemony Snicket, narratore che redarguisce il pubblico dal vedere una serie così piena di disavventure. La storia è quella dei benestanti fratelli Baudelaire: Violet (Malina Weissman), Klaus (Louis Hynes) e l’infante Sunny , che hanno capacità eccezionali: Violet è un genio della meccanica, una provetta MacGyver, Klaus è un topo da biblioteca e Sunny si diletta a mordere e modellare oggetti molto resistenti.

Divenuti improvvisamente orfani a causa di un incendio sospetto nella loro abitazione mentre erano via, vengono affidati al perfido Conte Olaf (Neil Patrick Harris) grazie ad un piano da lui stesso escogitato, per impossessarsi della loro fortuna.

In ogni puntata gli orfani cercheranno di sfuggire ai piani del trasformista Conte Olaf, smascherandolo (letteralmente… parola che nella serie è molto discussa!), mentre nessun adulto darà loro retta, ponendoli davanti alla cruda realtà di essere soli al mondo.

Il mistero portante però, quello orizzontale, che accompagna per ogni puntata fino alla fine (e proseguirà nella prossima stagione, già confermata), riguarda un simbolo che i Baudelaire incontrano ovunque, a partire da un misterioso oggetto appartenente al loro papà, trovato tra le macerie della loro casa: un occhio stilizzato, lo stesso che il Conte Olaf ha tatuato sulla caviglia.

Dalle premesse potrebbe sembrare una delle storie del Fantabosco. In realtà, la narrazione affronta tematiche molto dure senza però mai divenire cupa e anzi il suo merito è rimanere brillante, sarcastica e ironica, anche nei momenti più atroci.

La storia è intrisa di paradossale e di grottesco. I bambini sembrano gli unici personaggi reali in un mondo di cartoni animati, gli unici personaggi ad accorgersi degli ovvi travestimenti del Conte Olaf e degli altrettanto ovvi inganni. La sensazione è che il mondo adulto sia assopito e rapito da altre faccende non importanti quanto possono essere le disavventure dei Baudelaire.

Il paradossale e il grottesco si riflettono anche nella parte visiva, nei luoghi e nei vestiti, che rendono questo mondo narrativo ancora più incantato, come se ci si trovasse nel libro di Alice Nel Paese Delle Meraviglie. Il tempo e il luogo non sono definiti e regna il retrò. Per questi motivi e per il gusto gotico, molti indicano la serie come Tim Burtoniana.

In realtà è un omaggio a più registi. Snicket che fa il narratore ricorda l’Alfred Hitchcock di “Alfred Hitchcock presenta”, anche se il nostro appare poi più volte all’interno delle scene, spesso impossessandosene. Poi c’è la rottura della quarta parete tipica di Orson Welles e i quadri e la maniacalità dei dettagli alla Wes Anderson.

Questo adattamento è molto più vicino ai romanzi rispetto al film che nel 2004 aveva visto Jim Carrey nei panni del malvagio Conte Olaf. Dal punto di vista della messa in scena è molto più educato, ordinato e studiato: in ogni singola scena nulla è lasciato al caso, nessuna inquadratura e nessun dettaglio, tutto risulta inverosimilmente perfetto e vivo,  i colori sono studiati per creare il contrasto tra il buono (pastello) e il cattivo (grigi, neri, sbiaditi). Tutto è valorizzato dalle inquadrature che sembrano foto posate.

Neil Patrick Harris è il fiore all’occhiello della serie, svolge il compito molto meglio del suo predecessore del grande schermo, è convincente nelle trasformazioni e nelle intenzioni. È assolutamente brillante, capace di far trapelare sia la stupidità del suo personaggio che la sua più spaventosa malvagità. È il trasformista che interpreta il trasformista.

La narrazione diventa prolissa in alcune scene poiché si sofferma sulle gag e su divagazioni dei personaggi che non portano nulla alla storia, ma nel complesso risulta divertente e avvincente, piena di citazioni letterarie e, nonostante gli “spaventosi” avvertimenti della sigla e di Snicket, è difficile non appassionarsi alla vicenda e “guardare altrove”.

Il Verdetto 8


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