Ci sono alcuni temi ricorrenti nella letteratura come nel cinema che non passeranno mai di moda, come le catastrofi naturali, la guerra, l’amore, la solitudine e l’uomo contro la natura. In particolar modo le ultime due categorie trovano nel cinema un filone che esiste da sempre e che, tra alti e bassi, continua a piacere.
Prendiamo ad esempio il recente The Shallows, che in Italia è stato tradotto dall’inglese in… inglese (sic!) con Paradise Beach, con l’aggiunta del sotto titolo italiano Dentro l’incubo (finirà mai davvero l’incubo delle traduzioni italiane?).
Quest’ultima fatica del catalano Jaume Collet-Serra (già dietro alla cinepresa di film come Unknown – Senza Identità, Non-Stop e Run all night – Una notte per sopravvivere) vede la giovane Nancy (Blake Lively) dedicarsi al surf in una spiaggia reclusa e difficile da trovare (la storia lascia immaginare si trovi in Messico, anche se le riprese sono state effettuate nel Queensland australiano e, nella versione doppiata in Messico, per motivi d’immagine, si è preferito ridoppiare le parti dallo spagnolo al brasiliano facendo pensare si tratti di una località brasiliana.).
A parte Carlos (Óscar Jaenada), l’autista che l’accompagna alla spiaggia, e altri due surfisti che avranno un ruolo marginale nella storia, il resto degli 86 minuti totali del film è dedicato esclusivamente a Nancy e allo squalo che non le dà tregua e che la tiene bloccata per quasi due giorni su una piccola roccia che emerge dall’acqua durante la bassa marea (praticamente una secca, che in inglese si dice appunto shallow).
Perché, ancora una volta, di questo si tratta: uomo contro squalo. Film come questi non richiedo la ricerca dell’originalità, perché ormai tra squali, piranha e mostri marini abbiamo davvero già visto di tutto. Film come questi, oggi, vogliono solamente la qualità a 360 gradi. E in Paradise Beach se ne trova abbastanza. Dall’ottima performance di Blake Lively, presente sullo schermo per il 99% delle scene, ai paesaggi, ad alcune trovate narrative come ad esempio l’uso della GoPro o il rapporto di Nancy con un gabbiano (ribattezzato per l’occasione Steven Seagull, storpiando il nome di Steven Seagal in Seagull che in inglese significa appunto gabbiano).
Anche gli effetti digitali si difendono abbastanza bene, soprattutto considerando che dalla metà in poi del film lo squalo lo si vede sempre di più. Certo, la presenza digitale la si nota, sia nello squalo che nei colori del cielo, dell’acqua e di alcune onde, ma non infastidisce. Il rischio, infatti, era quello di presentare un film low-budget per adolescenti dedicato unicamente alla bellezza della Lively (evidenziata in modo esagerato nella preparazione iniziale in spiaggia) e a quella del paesaggio alternandole con momenti di rosso splatter. Invece Collett-Serra riesce a dare un certo spessore al racconto e a mantenere il livello artistico più in alto di quanto ci si aspetti da film del genere.
Il mio consiglio per chi guarda film come questi, però, è sempre lo stesso: abbandonate ogni realismo voi che guardate. Perché non è quello lo scopo di questi racconti e, sicuramente, esperti di surf, di squali e di oceani troveranno delle inesattezze, ma non importa. Il film piacerà a coloro che si sono lasciati trasportare in film come Lo Squalo (ovviamente), ma anche in avventure da naufrago come il Cast Away (Robert Zemeckis) con Tom Hanks, 127 ore (Danny Boyle) con James Franco o il All is lost – Tutto è perduto (J.C. Chandor) di Robert Redford, perché ancora prima dello squalo, il vero nemico della semi-naufraga Nancy è l’ambiente, il freddo di notte, il caldo di giorno, la mancanza di acqua e cibo, l’impossibilità a scappare, le ferite e, su tutte, la solitudine.
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