La prima stagione di Star Trek: Discovery, trasmessa in italia da Netflix, si è appena conclusa con l’episodio numero 15. Questa è la nostra recensione completa.
A dodici anni di distanza dall’ultima serie tv marchiata Star Trek, la voglia degli appassionati e la curiosità dei neofiti erano alle stelle. Infatti, da settembre ad oggi sui social, in tv, nei talk show, non si è parlato d’altro. Questo, senza dubbio, è stato un grande merito di produttori e sceneggiatori: riportare in vita un franchise che in sessant’anni ha fatto la storia della televisione. Ma una volta aperto il vaso di pandora, le sfide erano tante e difficili.
Questo perché fare una serie Star Trek, soprattutto nel 2018, è maledettamente complesso. All’epoca di Kirk, ma anche di Picard, Sisko e Janeway, il mondo della tv era completamente diverso, una nicchia con budget limitati, dove sbizzarrire la creatività degli sceneggiatori. Oggi, nell’età d’oro di Netflix e dello streaming, LA TV E’ IL MONDO e le serie tv hanno budget stellari, Discovery inclusa. Conciliare i valori e le caratteristiche specifiche del mondo Star Trek, il cosiddetto Canone, con le esigenze della nuova tv commerciale, non è semplice.
Star Trek: Discovery, diciamolo subito, è riuscita solo in parte a realizzare questa titanica impresa. Tra le due opposte tendenze, una più conservatrice, cara ai vecchi appassionati, l’altra più commerciale e moderna, rivolta ad un pubblico di neofiti, Discovery strizza decisamente l’occhio a quest’ultima. La trama, i personaggi, la tecnologia, la scelta della timeline, TUTTO è improntato ad una decisiva rottura con il passato di Star Trek.
Proprio la trama, a nostro avviso, rappresenta uno dei punti più controversi della serie, probabilmente gradevole per i nuovi, sicuramente una delusione per i vecchi fan. Una delle caratteristiche straordinarie di tutte le precedenti serie Star Trek, era quella di avere il coraggio di raccontare sempre nuove storie, nuovi mondi. In questo caso invece gli sceneggiatori hanno deciso di andare sull’usato sicuro, di riadattare idee del passato, di ri-raccontare vecchie vicende. Ed è così che la storia principale è rappresentata dalla guerra tra i Klingon e la Federazione, addirittura precedente alle avventure di Kirk e Spock. FINE. Niente nuovi mondi, niente esplorazione, nulla.
Se la trama manca di audacia i personaggi, audaci, lo sono anche troppo. In questo settore la rivoluzione è stata totale, eccessiva. Adattandosi totalmente alla TV del 2018, Discovery racconta personaggi ambivalenti, oscuri, sempre sul filo del rasoio, che un giorno ci sono, l’altro spariscono. E’ talmente tutto un vai e vieni che, sacrilegio, in Discovery quella di capitano è una posizione vacante, che ruota sempre. Tra morti, intrighi e tradimenti, la povera e bellissima ammiraglia U.S.S. Discovery si trova ad avere cinque diversi capitani in appena quindici episodi. Probabilmente ai neofiti piacerà, ma per chi è cresciuto idolatrando Jean Luc Picard, è un po’ troppo.
Ma se quella del capitano part-time può essere una trovata narrativa che nell’era Netflix ha un suo fascino, dove davvero Star Trek: Discovery è naufragata tragicamente è nella scelta della protagonista, Michael Burnham, interpretata da Sonequa Martin-Green. Qui non so veramente da dove cominciare. Anzitutto le sue capacità interpretative sono pessime. Burnham ha solo un’espressione, quella incazzata, fine.
Anche la storia che gli sceneggiatori le hanno cucito attorno fa acqua da tutte le parti. In teoria lei dovrebbe essere un’umana, figlia adottiva di Sarek e quindi di totale formazione vulcaniana. DI VULCANIANO NON HA NULLA, ZERO. Chi conosce i vulcaniani sa bene che la faccia perennemente incazzata non è prerogativa di quella civiltà, ma forse a Sonequa non l’hanno spiegato. Burnham risulta quindi un personaggio di incredibile antipatia che, gli appassionati se ne sono accorti dopo dieci secondi della prima scena, non ha nulla a che fare con il mondo di Star Trek, sembra capitata li per caso.
Purtroppo questa alterità, questa sensazione di essere venuti direttamente da Star Wars, di non c’entrare nulla con Star Trek, non riguarda solo la protagonista. Anche altri personaggi cardine, come il tenente Ash Tyler (Shazad Latif) o il capitano/imperatrice Philippa Geogiou (Michelle Yeoh), sembrano venire da un’altra galassia, totalmente avulsi al mondo creato da Gene Roddenberry. Notabile eccezione a questo sfortunato paradigma sono il tenente Paul Stamets, meravigliosamente interpretato da Anthony Rapp e il primo ufficiale kelpiano Saru (Doug Jones).
Se la trama e i personaggi hanno diviso molto le opinioni di vecchi appassionati e nuovi spettatori, nulla si può dire sul comparto tecnico, che è di altissimo livello. La computer grafica del 2018 ci ha mostrato una bellissima U.S.S. Discovery, battaglie (poche), convincenti e a mio giudizio una strepitosa nuova versione dei klingon, più cattiva e “aliena” ma non snaturata delle sue caratteristiche fondamentali. Peccato solo per le uniformi della flotta stellare: di per se non sono brutte ma si poteva, almeno in quello, andare su qualcosa di più incline alla tradizione, quantomeno rispettando i mitici colori rosso, giallo e verde acqua.
Infine un pensiero sull’aspetto che in passato ha rappresentato uno dei tratti più distintivi dell’intero mondo di Star Trek, la sigla. Che delusione…siamo lontani anni luce, è proprio il caso di dirlo, dal leggendario: “Spazio, Ultima Frontiera…” di The Next Generation, ma anche dalle piacevoli sigle dei recenti film di J.J. Abrams. Con i mezzi della tecnologia grafica e sonora di oggi, si poteva fare molto di più.
IN BREVE: LA PRIMA STAGIONE DI STAR TREK:DISCOVERY HA RIVOLUZIONATO SACRI PARADIGMI COME QUELLI DELL’EQUIPAGGIO, DOVE ERA NECESSARIA MAGGIORE CAUTELA. AL CONTRARIO, E’ STATA POCO INNOVATIVA NELLA TRAMA, DOVE INVECE C’ERA BISOGNO DI SPRIGIONARE NUOVE IDEE, NUOVI MONDI. UN VERO PECCATO, MA IL VIAGGIO E’ APPENA COMINCIATO.
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